sabato 1 ottobre 2011

Filosofia dell'orientamento nella ricerca del lavoro...

Ormai saper cercare lavoro è una competenza, si dice infatti che "cercare un lavoro è un lavoro!".
Per chi ha sempre lavorato e si trova oggi senza un'occupazione -perchè in cassaintegrazione, in mobilità o altro- oppure per chi è disoccupato (o inoccupato), le "varie" possibilità di trovare una situazione lavorativa si restringono colpa, forse, dei troppi canali di ricerca che vanno a sovrapporsi a quelli "tradizionali",  linguaggi che molte persone ignorano e che non sanno come afferrare.
Oltre alla crisi e certi meccanismi nel mondo del lavoro che non mettono in condizione di valorizzare la persona (ma questo è un altro argomento), i nuovi sistemi di ricerca vanno sia a sovrapporre che riempire gli spazi lasciati dai metodi di "una volta". Ora c'è il web,  le inserzioni sui quotidiani, le agenzie di selezione ecc. Il risultato è che molta gente si mette alla ricerca, prova a telefonare o recarsi di persona nelle aziende (dove spesso si era sentito dire che "cercavano") sentendosi rispondere che "sono a posto per il momento" e  "lasci il curriculum qui o lo invii...le faremo sapere". Non starò qui ad analizzare il perchè ciò avviene, vorrei però provare ad affrontare un punto che ritengo importante per il successo di una ricerca di lavoro, ovvero, che occorre partire da se stessi, capire ciò che si è fatto -giorno per giorno- cercando di correggere il tiro, sino a centrare l'obiettivo prefissato.
Prima ancora di chiedersi come si è cercato occorrerebbe domandarsi quali obiettivi si vuole raggiungere, quali sono le finalità per cui si vuole trovare un nuovo lavoro, ad esempio: arrivare alla pensione, prendere uno stipendio alla fine del mese o a fine progetto, cercare l'indeterminato, avere la possibilità di "esprimere" le proprie idee,  avere dei benefits, avere stabilità, ricercare riconoscimenti sociali ecc.Dobbiamo partire da noi stessi, farci delle domande per creare consapevolezza, in modo da evitare la ripetizione degli errori (sennò il tentare di risolvere il problema diventerà "il vero problema", tradotto in una possibile demotivazione che fa smettere -o ridurre- la ricerca). Un'efficace ricercadel lavoro parte,quindi, da una ricerca di come siamo e di come ci vediamo, guardando cosa ci motiva e cosa no..

Mi permetto di avviare un elenco di quelle che chiamerò "LE DOMANDE CHE DEVO FARMI", chiendendo agli amici che leggono di contribuire -aggiungendo o cassando i miei spunti- in modo da poter dare qualche idea concreta a chi sta cercano un lavoro.

LE DOMANDE CHE DEVO FARMI:
  1. Quali canali di ricerca ho utilzzato ad oggi (internet, conoscenti, posta, agenzie per il lavoro, centri per l'impego, andando di persona ecc...)? Tenete presente che al 20 % la gente trova lavoro grazie alle persone che già conosceva. N.B. Riguardo i canali personali esistono metodi per sviluppare una "rete"..è un metodo che va sviluppato...però!Su internet si trovano ottimi esempi.
  2. Quali competenze, ad oggi,  ho maturato? Occorre chiarirsi quale ruolo lavorativo si aveva-trovando la giusta dicitura da inserire nel cv-, elencando le mansioni svolte e, sopratutto, quali competenze trasversali si sono sviluppate: cioè quelle competenze che è possibile esportare da un posto di lavoro ad un altro( capacità organizzative, relazionali ecc.).
  3. Come comunico alle aziende il mio valore? E' importante ricordarsi  la massima "è impossibile non comunicare". Se non dico cose su di me -magari che so' una lingua, che conosco un programma particolare del pc o che nel precedente lavoro dovevo relazionarmi con tante perosne- sto comunicando che non so quelle cose...fino a prova contraria naturalmente).
  4. Quanti km al massimo posso fare per andare a lavorare?
  5. L'azienda che mi interessa come cerca il personale? A poco serve mandare il cv di persona se "quelli" reclutano in altro modo. Dobbiamo trovare come essa comunica...
Ce ne sono di cose da dire...proviamo a portare idee, spunti...Grazie!
Davide

mercoledì 31 agosto 2011

Comunicare (il) Bene ...a Firenze

Il 16  luglio, all’incontro fiorentino di Phronesis, ho partecipato portando un laboratorio da svolgere con i consulenti filosofici, attività chiamata “Comunicare (il) Bene agli altri”: i partecipanti erano circa una quindicina.
Vorrei continuare ciò che in quella sede è stato solo accennato, cercando di entrare maggiormente nel vivo della questione. Mi piacerebbe nascessero nuove riflessioni sul tema.
Non volevo creare un post “ad hoc” ma continuare nel post "Comunicare (il) Bene", “aggrappandomi” agli spunti precedenti, per  ritrovarsi fra partecipanti -e non-  ad aggiungere nuove idee. Avendo però avuto problemi ad inserire nuovi commenti continuo qui...l'idea di questo blog è che accumuli e accomuni (“cosa”, lo decideremo insieme)… e viceversa.
L’incontro, come dicevo, è stato fatto a luglio. Dopo di esso ho avuto modo di pensare “sul” come si è svolto. La pratica filosofica induce solitamente a domandare/rsi il senso delle cose e, in quel frangente - nell’ora e mezza scarsa in cui abbiamo ragionato - in realtà è stato affrontato il discorso più sul “metodo” che volevo portare, cioè sul “come faccio quel laboratorio”, piuttosto che sui contenuti che avrei voluto affrontare.
Potrei dire che è abbiamo letto “più le istruzioni per l’uso” che giocato al “gioco”.
L’esito, o meglio, la sensazione che ne ho avuto alla fine del laboratorio è stata di aver proposto stimoli ma di non aver affrontato l’argomentazione sugli stessi, così siamo rimasti sulla crosta.
Un’altra cosa che ho avvertito –e che immaginavo potesse accadere, per le stesse “nature” del fare consulenza/pratica filosofica- riguarda "il domandare" sul metodo.  Ho avuto come l'impressione che, se portato in eccesso (quale sia questo eccesso, è poi da vedere), può provocare una sorta di cortocircuito; se vierne a crearsi un “dubbio perenne”, si può andare ad incidere e spezzettare il significato, il senso, dell'evento, modificandone -così- la portata.
Mi è sembrato in quell'occasione (magari è una percezione falsata ma, se comunicare è un atto biunivoco dove sia l’emittente che manda un segnale sia il destinatario che la riceve -e che da un feedback- hanno “valore” nei loro atti, allora è interessante capire come qui si giochi l’intersoggettività, e dove sta il punto d’incontro tra gli attori in gioco) che il domandare fosse come un “non buttarsi” nei ragionamenti, chiedendosi ad ogni momento se era opportuno o meno ragionare (meta-ragionamenti).
Domanda: è forse questo un”rischio”, un limite, oppure il valore aggiunto della consulenza7pratica filosofica in alcuni ambiti (nelle organizzazioni, per esempio)?
Sensazioni... mi farebbe piacere scoprire anche quelle dei partecipanti...

Continuando.
Proprio per questo vorrei procedere da dove eravamo stati interrotti, proseguendo sulla strada della ricerca senza pensare –ora- a dei limiti di tempo.

Inizialmente avevo chiesto ai consulenti filosofici di definire la parola “Comunicazione”.
Da questa richiesta sono emerse le seguenti parole chiave:
-Relazione;
-Condivisione;
-Espressione;
-Fare;
-Linguaggio.

Tenendo a mente queste parole emerse vorrei fare un passo in avanti. Dopo aver letto il testo del Cardinale Ravasi “La ricerca della Verità” del 25 ottobre (G.Ravasi, Le parole e i giorni, Oscar Mondadori, 2008, Milano, p.329) ho chiesto ai partecipanti di esprimere una preferenza, dicendo quale parte, frase o proposizione li avesse colpiti.
Ecco di seguito alcuni spunti trovati particolarmente significativi:


-Caduta del desiderio;
-Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta;
-Ricerca della verità;
-Verità preconfezionata;
-Spazi infiniti dell’anima e dell’essere;
-Passione e fatica.

A questo punto mi fermo. Vorrei proseguire con chi sta leggendo, senza guardare al resto, gettando qualche spunto per ragionare insieme su cosa sia “Comunicare (il) Bene”.
Vi chiedendo, quindi, di rileggere le frasi qui sopra proposte e sceglierne una, magari argomentando la preferenza…proviamo a rifletterne il senso. Grazie, a presto!!!

martedì 30 agosto 2011

blog ripristinato..

Ciao,
finalmente nel blog è possibile riuscire a scrivere e rispondere. Mi scuso se per un pò di tempo non ci sono stati aggiornamenti...a presto!!!
Davide

giovedì 31 marzo 2011

Comunicare (il) Bene?

Comunicare, inteso come atto di condivisione, crea spazi di contatto.
A volte, non è che diamo un po' per scontata l'intenzione dei nostri agiti non curandoci del risultato poi ottenuto?
Bene? ...Per chi? Per quello che conpie l'atto o per chi lo "subisce"? Per chi dice: "lo faccio per il  <<bene>> (di qualcuno)", oppure per chi  dovrebbe apprezzare una certa attenzione?... e...invece...
Conta l'attenzione a comunicare un atto nel migliore dei modi, per non essere fraintesi, oppure essere fraintesi e puntare al raggiungimento dell'obiettivo ritenuto "buono"?...Si, ma, cos'è "buono"?...
Non vorrei  essere frainteso -io- ora. Non è al relativismo che punto, ma evitare l' abitudine a generalizzare e banalizzare ciò che non vedo nell' "altro" da me.

sabato 12 febbraio 2011

Non sento cosa dici...

Scrisse il filosofo americano Emerson: "Ciò che sei grida così forte che non sento ciò che mi stai dicendo".
L'esempio passa coi fatti, non solo dalle parole, entra nello spazio di chi osserva formando -così- impressioni riguardo le cose del mondo.
Ma ognuno di noi cosa “grida”? E cosa -invece- va “solo dicendo” ?

domenica 30 gennaio 2011

Dialogo tra generazioni

In queste settimane sto svolgendo incontri di pratica filosofica sul tema del "dialogo tra generazioni". 
Insieme ai partecipanti ho ricercato quali siano i presupposti, le difficoltà, gli argomenti possibili per far si che il dialogo avvenga. Devo dire che trovo questo argomento veramente appassionante; in esso penso ci siano gli aspetti essenziali per il futuro della nostra società .
Scrivo, qui di seguito, gli spunti da cui siamo partiti e ciò che -ad oggi- è emerso. 
P.s. se vi vengono in mente altre cose, aggiungete!!! Grazie!
                       
Introduzione del tema da analizzare filosoficamente.
Perché analizzare filosoficamente la possibilità -o meno- del "dialogo tra generazioni"?
La filosofia, proprio per la sua inclinazione ad indagare le cose, a ricercare il sapere, si pone come spazio di riflessione aiutando a riflettere sugli argomenti: fondando eventuali basi su cui poggiare i comportamenti umani.
In che modo?
Attraverso il dialogo si possono cercare punti comuni, divergenze concettuali, opinioni e visioni di mondo personali; tutto ciò può arricchire gli interlocutori, perché si viene a contatto con “l’altro”. Questo, oltre a creare nuovi spazi di comprensione,  può generare spunti e allargamento della visioni sulle cose.
Lo stesso Socrate, riferendosi al lavoro praticato dalla madre, che era ostetrica, diceva di far “partorire le idee” dei suoi interlocutori.
L’utilità del dialogo è quella di mettere sul tavolo della conoscenza -condivisa- ciò che riteniamo essere giusto o sbagliato; questo può contribuire a vedere le cose da più punti di vista. Certo, non è sempre semplice, però può aiutare a clgliere  prospettive e sfumature che. ad oggi, non sempre abbiamo preso in  considerazione.
Conseguentemente può essere pratico rivedere i concetti in modo allargato, perché se vediamo le cose in modo più approfondito può essere che lo giudichiamo diversamente, come dice Lewin: “non  c’è niente di più pratico di una buona teoria”. Cioè, per quanto -a volte- si sente dire  frasi del tipo "la filosofia è cosa astratta” o che “ è lontana dal mondo” e così via, possiamo ritenere che in realtà i nostri pensieri, i ragionamenti, le considerazioni ricadono –poi- sulla vita di tutti i giorni.

Un breve accenno sul significato delle parole “dialogo” e generazione”, per   riflettere in modo approfondito sul tema.

Dialogo (dal greco dià, "attraverso" e logos, "discorso") indica il confronto verbale tra due o più persone; è un mezzo utile per esprimere sentimenti diversi e discutere idee contrapposte.
In generale, il dialogo è fenomeno tipico della cultura; in questa prospettiva si contrappone al monologo, al ragionamento individuale.
Socrate, come già accennato, era un forte sostenitore del dialogo, vedendolo come modello di critica dell’opinione, Platone lo definisce come via, dialettica, che porta ad intuire la verità. Con il dialogo si crea l’intersoggettività, cioè: non la mia opinione, non la tua opinione…ma la nostra opinione come punto d'incontro dei nostri modi di vedere le cose.
Il dialogo non ha come fine il consenso, ma un reciproco progresso, un avanzare insieme.
Generazione: identifica un insieme di persone che è vissuta ed è stata esposta a degli eventi che l' ha caratterizzata. Raggruppa, cioè, tutti quegli individui segnati dagli stessi eventi (esempio: movimenti studenteschi del '68, ecc.). Gli eventi influiscono sulla generazione che li ha vissuti, determinandone dunque un mantenimento di caratteristiche proprie di quel momento storico, culturale e sociale. L’opposto di generazione è “distruzione”!
In filosofia, la parola "genere" viene anche usata per indicare una categoria di oggetti che hanno in comune proprietà essenziali e differiscono per proprietà essenzial.

Tornando al metodo proposto nella pratica filosofica è opportuno ricordare che la filosofia nelle scuole ellenistiche veniva insegnata  attraverso proprio attraverso il dialogo (e non –solo- attraverso il monologo di discenti), il quale vantava origini antiche nella filosofia greca (punto di riferimento è -il già citato- Socrate (470-399 a.C.)  che, com’è noto, non ha lasciato nulla di scritto).
La filosofia per queste tre scuole (stoici, epicurei e scettici), non è identica ma di fatto spesso le definizioni sono coincidenti.
Per gli stoici: la filosofia è «l’esercizio di un'arte utile, e utile è solo e innanzitutto la virtù» (SVF 11, 35), mentre per Epicuro è: «l'attività che per mezzo di discorsi eragionamenti procura la vita felice» (fr. 230 Arrighetti). Quanto agli scettici, poi, essi definiscono la  loro filosofia come: «capacità di mettere a confronto in qualsiasi modo le cose fenomeniche e quelle intelligibili>>.

Fatte queste precisazioni, espongo  quali parole sono emerse negli incontri di pratica filosofica sul "dialogo tra generazioni". Ognuna ha aperto domande e riflessioni che, in modo dinamico, possono crescere di significato giorno dopo giorno. 
Eccole di seguito:

-l’educazione (chi la da? e chi la riceve? cos'è? quando è buona e quando no?),
-i valori (chi li ha? a chi mancano? cosa sono?),
-la libertà (di cosa si tratta? ...di ogni individuo, di ogni generazione),
-la condivisione (Intesa come comunicazione buona)
-la solitudine (nella società dell'individuo: specie in alcune categorie -anziani, giovani),
-l’ascolto(che dovrebbero avere sia giovani che adulti),
-la capacità di comprensione (degli adulti nei confronti dei giovani),
-la paura (dell'individuo dell'altro),
-l’obsoleto (cioè,  l'adulto che si percepisce "fuori giri" rispetto a chi non è "giovane”).

C’è un aspetto squisitamente filosofico, sottostante alle parole emerse, che si può porre come fondamento della nostra ricerca: il tema è quello della verità.
Perché? Il nostro ricercare sulle possibilità di dialogo tra generazioni non vuole certo trovare “il modo di aver ragione sui giovani”, oppure “su come essere coercitivi nel modo giusto” ecc.,  ma su quali possono essere le basi per instaurare un dialogo: come confronto, come condivisione.
Dalle nostre riflessioni è emerso che: comprensione, ascolto attivo, sincera attenzione possono essere aspetti importanti su cui puntare per costruire un ponte comunicativo.
L’abitudine alla ricerca di senso, di verità,  per la scoperta del mondo può forse essere una spinta su cui fare perno. A volte è più importante il tragitto fatto piuttosto che la meta da raggiungere (se raggiungibile); cioè, non è così importante trovare la verità ma, piuttosto, percorrere la strada della ricerca della verità.
Come dice un bellissimo proverbio magrebino: “nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, però è l’utopia che fa andare le carovane”.

Per inciso,
Per gli antichi greci la verità, che chiamavano Alètheia, con l'alfa privativo, era  il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Quindi la verità era dis-svelare, togliere il velo dalle cose (come avrebbe detto qualcuno molto più avanti “squarciare il velo…”).
Nel nostro ambito latino “veritas” è un termine che -proveniente dalla zona balcanica e dalla zona slava- vuol dire "fede”, implicando quindi una derivazione differente da quella greca: potremmo dire che esistono due differenti modi di intendere la verità.
Una verità che è “svelare il significato nelle cose” e una verità assunta come fede, come certezza a prescindere.

Dialogare con l’altro può essere -quindi-  un atto di ricerca di verità: la "sua" ma anche la "nostra",  i punti in comune e le distanze,  ciò che è giusto e ciò che non lo è (indangando cosa, ognuno, intenda per "giustizia"…)...

..cosa ne dite...?