domenica 21 novembre 2010

che senso ha?

Quante volte abbiamo detto ad alta voce: <<ma che senso ha?>>- magari con tono stizzito, gesticolando con le mani e gli occhi un po’ strabuzzanti-, indirizzando questa domanda verso chi, a nostro giudizio, è autore di comportamenti che poco hanno a che fare con la ragione?

Certamente, se poniamo la domanda “che senso ha?" e la esplicitiamo a chi ci sta intorno, qualche motivo c’è: può darsi che l’interrogativo sia posto a noi stessi, cercando una qualche risposta; può anche darsi –invece- che lo riteniamo una specie di sfida per far ammettere “dall’altra parte della barricata” che un determinato comportamento effettivamente: <<di senso non ne ha>>.

Se, però, chiedere che senso abbia una determinata cosa è formulato con vera motivazione a capire, le prospettive cambiano (puntualizzo: temo che se ciò avviene per quest’ultima ragione, è già di per sé una grande conquista, dato che la capacità di fare domande -con l’intenzione di comprendere realmente chi abbiamo intorno- è faccenda dispendiosa, in quanto pone eventuali possibilità di cambiamento, quindi di fatica); sempre che tutto ciò non abbia il valore di uno slogan vuoto -perché sennò si pone “la domanda” tirando poi dritti verso una risposta preconfezionata-, dove spesso viene spontaneo riporre ciò che non è familiare a noi stessi.

Chiedere genuinamente– e non retoricamente - il senso è forse uno dei primi passi per aprirsi verso il mondo dell’altro. Sostenere l’interrogativo aiuta a comprendere e può donare scenari arricchenti, posto che in qualunque caso  -sia che l’oggetto possa essere ben definito o mal definito, sia che la persona possa essere ben disposta o mal disposta nell’azione che compie– il comportamento ha un senso (latente o esplicitato che sia), ma non sempre è del tutto chiaro a chi lo compie.

Ma perché indagare il “senso”? O…. perché no?


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